Archivio per luglio 2017

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Lug
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GENOVA 2001. Una questione ancora aperta. Intervista a Lorenzo Guadagnucci.

Extrait

 

SB_20 luglio 2017. 16 anni dopo il G8 di Genova alla luce della legge sulla tortura. Il tuo pensiero e la tua sintesi della giornata.
Lorenzo GUADAGNUCCI _ Quello che si vede è che sono passati sicuramente parecchi anni ormai. Nonostante ci sia, tuttora, e del resto è in corso da tanto tempo, un lavoro di rimozione, a vari livelli, su quello che ha rappresentato, per vari aspetti, Genova, mi sembra che la questione sia ancora aperta per molti motivi.
Uno è sicuramente questo esito paradossale legislativo che si è avuto appunto sulla legge sulla tortura che è stata approvata, direi, fondamentalmente proprio per effetto, di lungo periodo, delle torture praticate durante il G8.
Il Parlamento ha approvato questa legge di fronte alle sentenze che stanno arrivando, prima nel 2015, l’altra nel giugno scorso sulla Diaz, altre arriveranno per Bolzaneto, il motivo fondamentale è quello.
Il Parlamento arriva ad approvare una legge – paradosso non casuale – una legge scritta in maniera così maliziosa, tradendo la volontà di negare se stessa direi, che, come undici, tra Pm e giudici di Genova, che hanno avuto a che fare con processi Diaz e Bolzaneto, prima che la legge fosse approvata, hanno scritto alla Presidente della Camera, richiamando l’attenzione sul fatto che si stava approvando una legge che non si applicherebbe alla Diaz e a Bolzaneto.
E però è stata approvata ugualmente.
Evidentemente c’è un’incapacità, che poi è una mancanza di volontà, di fare conti con quella stagione e con i suoi effetti, e questa è una cosa molto grave.
Se anche ci spostiamo poi sul piano più politico, e questo ha a che fare con gli abusi di potere che ci furono, il movimento era in piazza per delle ragioni non per il gusto di contestare qualcuno. Queste ragioni continuano ad essere accantonate. Sono state cancellate, direi, dall’agenda pubblica, tanto che io credo sinceramente che il vero obiettivo poi, in fondo, fosse questo: criminalizzare il movimento, con un uso sproporzionato della violenza, sostenendo che era un movimento violento, in modo che le sue idee fossero a loro volta criminalizzate e tagliate fuori dal discorso. E questo è quello che è puntualmente avvenuto.
Se però vogliamo fare un’analisi seria, rigorosa, di quello che il movimento, in quello squarcio di tempo del 2000/2001, aveva da dire e guardiamo qual è la situazione oggi, ci accorgiamo che è stata veramente una tragedia l’aver escluso quel filone, culturale e politico, dalla considerazione perché le domande che poneva il movimento erano quelle giuste, i temi che portava alla ribalta, e che per la prima volta venivano affrontati in quel modo, sono i temi di oggi. Lo strapotere della finanza, di questo si parlava a Genova, della questione del debito pubblico come strumento di dominio è una delle questioni centrali, la libertà di movimento da riconoscere a tutti.
Lo stiamo vedendo oggi, la questione dei migranti è quella che sta facendo saltare lo stato di diritto in Europa.
Per non parlare dell’abuso nell’estrazione delle risorse, delle disuguaglianze fra sud e nord del mondo e all’interno anche del mondo anche più sviluppato.
Quindi la voglia di rimozione che c’è stata, che ha fatto perdere di vista quell’orizzonte, invece noi di quell’orizzonte abbiamo bisogno spasmodico oggi perché, ad alzare un po’ lo sguardo, ormai sono dieci anni che c’è una crisieccessiva, sono dieci anni che ci dicono che sta per finire, che ritorna la crescita, che è tutto a posto. In qualche modo siamo inchiodati a questa ideologia neoliberale che non ci fa veder più niente. Siamo completamente ciechi di fronte a quello che succede.
In teoria questa ricorrenza dovrebbe servirci a fare aprire gli occhi e a recuperare quel filo.
Nella pratica questa è una cosa che riguarda ancora delle minoranze.
Resto dell’idea però che le buone ragioni, le buone idee, alla fine, la spuntano.

 

SB_ Se parliamo di repressione e criminalizzazione dei dissensi, ieri e oggi, mi riferisco al 2001, tu vedi continuità, discontinuità ?
LG _ Genova ha aperto una stagione di frattura fra le forze di sicurezza, un certo modo di intendere l’ordine, non solo l’ordine pubblico di piazza, l’idea di politica, l’idea di politica che si ha. Brutalmente ha criminalizzato una parte importante del paese, la parte forse più creativa in quel momento. Questa non è una cosa che si cancella soprattutto se, come abbiamo detto, c’è una rimozione e non si fanno i conti con questo.
C’è una continuità nel vissuto di chi lavora in polizia, ad esempio. Non aver fatto i conti con questa cosa porta oggi al paradosso di questi giorni. E’ uscita la notizia che alcuni dei condannati per il processo Diaz, siccome sono scaduti i cinque anni di interdizione dai pubblici uffici e siccome la polizia si è rifiutata di applicare quello che la Corte europea chiede in questi casi e cioè la rimozione dei condannati, torneranno in polizia.
Questo è un messaggio abbastanza potente che arriva a chi lavora in quell’ambito. Quindi c’è sicuramente un elemento di continuità.
Non ci sono state cose così clamorose come abbiamo vissuto nel 2001 però ci sono stati anche tanti episodi, addirittura con la morte di alcuni cittadini in mano alle forze di polizia, dove sono scattati meccanismo molto sibili a quelli che si videro a Genova: la falsificazione, la menzogna, il non collaborare con la magistratura, cercare di coprire invece di aprire le porte. Questa è un po’ l’eredità di Genova.

 

SB_Violenza e tortura come strategia nella gestione della repressione del dissenso.
LG_ Non fu niente di casuale quello che è successo. Ovviamente non è che si organizzano dei singoli episodi, passo per passo, ma è strategia, nel senso che a Genova, che ricordo che era la più importante manifestazione in Europa di quel movimento, ma ce ne furono anche altre precedentemente, e ovunque, in vari paesi europei, la scelta fu la stessa: affrontare questo movimento non come portatore di idee, di progetti e di proposte, ma come portatore di pericolo fisico, di pratiche violente da tenere sotto controllo.
Il movimento fu affrontato, in Svezia, in Repubblica Ceca, in Francia, in Italia – prima ancora di Genova a Napoli – con la stessa modalità intanto di allarme, allarme per l’ordine pubblico diffuso ai quattro venti, e poi con un uso, è il meno che possiamo dire, sproporzionato della forza. A Genova tutto questo è stato esaltato dall’importanza sia concreta della quantità dei partecipanti, sia mediatica che politica che aveva l’evento, e quindi è stato possibile fare quello che si è fatto.
Non so se si può dire che ci sia stata una strategia di tortura, forse questo non si può dire, ma sicuramente non è stato fatto niente per impedire che si arrivasse fino a quel punto.

Non si può dimenticare, quando si parla di casi concreti di tortura – la Diaz e Bolzaneto – che quello che è avvenuto ha a che fare con la sensazione, che poi si è rivelata corretta, che gli esecutori materiali avevano, in quel momento, di garanzia di impunità.
A Bolzaneto non è stato un episodio circoscritto a poche persone, fortuito: lì le violenze sono durate per tre giorni e da quel posto sono passate centinaia di agenti e funzionari.
Lungo tre giorni …
Non è pensabile che tutto questo sia avvenuto senza che ci fosse una consapevolezza generalizzata di quello che si faceva lì dentro.
Non si può pensare di relegare queste vicende a degli episodi circoscritti.
C’è dietro un’accettazione di questa possibilità, anche della tortura.
[…]
Il progetto era di gestire in quel modo senza mettere confini, sino ad accettare anche la tortura.

 

[…]

 

SB_A che punto siamo ?
LG_ Siamo al punto in cui dobbiamo confidare nella persuasione delle cose e dei propri convincimenti.
Credo che tutto sia reversibile.
Quindi se c’è qualcuno che desiste, ci sarà qualcun altro che resiste.
Probabilmente anche il panorama e la considerazione che dobbiamo avere dei vari soggetti in campo deve cambiare.
E occorre essere più protagonisti. Per lo meno chi, nei vari ambiti, ha un ruolo, ha raggiunto una consapevolezza, forse in questa fase deve trovare la forza per fare qualcosa di più e ricollegarsi il meglio possibile con altri che sono sulla stessa linea d’onda.
Certo i tempi non sono facili mi sembra di poter dire però che c’è sempre una base di consapevolezza, di voglia di fare e sulla voglia si può contare.
Dovremo fare conto su questo.

 

Lorenzo restituisce il senso di essere ancora in piazza Alimonda.

” E’ un clima del ritrovarsi. Una cosa comunque che rimane intergenerazionale.
Chi c’è c’era ma ci sono anche persone venute dopo, ragazzi …
Rimane un momento in cui ci si riconosce e si ribadisce una consapevolezza in un momento in cui ci viene detto delle cose del passato che sono fatti che non contano e che bisogna guardare altrove.

E’ uno di quei luoghi che ancora hanno un senso.”

 

Silvia Berruto, sostenitrice del Comitato Verità e Giustizia per Genova

 

 

® Riproduzione riservata

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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In scena “La foresta che cresce”. In Evergreen. Torino. Parco della Tesoriera.

 

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Torino, Piemonte, Italy  sabato 15 luglio 2017, ore 21.30

Va in scena LA FORESTA CHE CRESCE.

Fa più rumore un albero che cade di un’intera foresta che cresce

Il progetto è vincitore del bando MigrArti, indetto dal Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo – direzione Spettacolo.
E’ realizzato da Tedacà, Acti e Almateatro, in collaborazione con Isola di Ariel, LVIA, Arte Migrante e Equilibri d’Oriente.
E’ l’unico progetto in Piemonte selezionato e finanziato per il settore teatro.
 

 

Per non ascoltare solo il rumore dell’albero che cade.

Questo l’obiettivo di un progetto che diviene anche uno spettacolo teatrale.

L’immigrazione è, e si fa, occasione di crescita per la comunità.

Lo spettacolo affronta l’immigrazione come occasione imprescindibile, e imperdibile, di incontro, riflessione, scambio e  partecipazione fra giovani italiani, migranti di recente arrivo e giovani di origine straniera nati o cresciuti in Italia.

Il tutto centrato sul dialogo.

Progetto e spettacolo sono stati ideati e diretti da Gabriella Bordin, Beppe Rosso e Simone Schinocca.

I tre registi, con le tre rispettive compagnie teatrali, hanno condotto, a Torino, laboratori teatrali con la collaborazione e per la consulenza di Valentina Aicardi, Ornella Balestra, Suad Omar, Sara Consoli e Vesna Scepanovic.

Oltre 40 i giovani partecipanti: migranti del C.A.R.A. (centro accoglienza per richiedenti asilo), giovani immigrati di seconda generazione e cittadini italiani.

A San Salvario, basso San Donato e Porta Palazzo (San Pietro in Vincoli) sono stati condotti i laboratori e il lavoro con i giovani di seconda generazione è stato effettuato in collaborazione con LVIA, Arte Migrante ed Equilibri d’Oriente.

E’ stato un lavoro minuzioso, preciso, tenace: convinto che sarà certamente convincente.

Frutto della sinergia e della messa in comune dei saperi specifici e diversi, propri di ogni compagnia, che si sono uniti al know-how delle operatrici culturali di Almateatro – animatrici e attiviste storiche impegnate quotidianamente sul territorio per il dialogo interculturale – che si sono uniti ai saperi dei giovani del gruppo Arte Migrante.

Perché l’inclusione sociale si fa anche con l’arte.

Dall’incontro al dialogo, all’elaborazione di linguaggi creativi comuni.

Da questa esperienza è nata una comunità artistica che promuove e produce cambiamenti collettivi:  il superamento delle paure ma anche della fatica che implica ogni nuovo incontro, la nascita di una nuova società e di una società nuova. Nel tentativo di armonizzare le contraddizioni culturali, insite in ogni collettività. Contro stereotipi e violenze, anche linguistiche.

A partire dal vissuto e dalle aspirazioni di ogni giovane, dall’ascolto e dal rispetto reciproco, sono stati espressi e condivisi tutti gli stati d’animo.

Ogni vissuto è stato vissuto: storie personali, emozioni, disagi e conflitti sono così divenuti i costituenti l’azione drammaturgica.

L’Arte – in questo caso, scenica è, e diviene, STRUMENTO di DIALOGO.

Alla ricerca di modi, metodi, parole e soluzioni che favoriscano e facilitino processi di convivenza civile allargati ma soprattutto costruttivi. In questo senso i giovani di seconda generazione, per la loro storia personale, sono già testimoni e promotori di una società nuova che gia esiste. Sono testimoni privilegiati (purtroppo spesso solo in senso sociologico), soggetti portatori di istanze politiche uniche che non possono essere simulate da altri pari o da altri adulti. Si ascoltino le loro voci per spiegare un sapere, un saper fare e un saper essere, che nessuno può sostituire. Ogni  amministratrice e ogni amministratore, così come ogni cittadina e ogni cittadino italiano, ha il dovere di imparare da questi giovani COME si costruisce una vita e una LEGGE sullo Ius Soli.

Altrimenti, come si diceva un tempo per gli spazi  gli spazi si occupano, non si chiedono!  i giovani, TUTTI I GIOVANI, di origine straniera di seconda generazione, di recente arrivo o italiani per sangue, si ri-prendano il ruolo che compete loro e indichino vie e prospettive.

Agli adulti il compito, dopo aver ascoltato e ben compreso, il dovere umano, politico e sociale di produrre, insieme ai giovani e alle persone appena arrivate in Italia, convivenze civili.

In prospettiva.

Per futuri, possibili, complementari o diversi da quelli già esistenti, come diciamo NOI,  dell’Espace Populaire di Aosta, che oggi festeggia 12 anni di lotte e di r-esistenze politica, culturale, sociale e di libertà: (un laboratorio di pace) per mondi diversi migliori dell’esistente!

 

“Attraverso storie, amori e desideri di chi oggi, GIOVANE, vive in Italia” *

L’action dal palcoscenico, in forma “transumante”, si snoderà fra gli alberi secolari del Parco della Tesoriera.

Con contaminazioni fra teatro, danza e video testimonianze.

Da non perdere !

 

Silvia Berruto,  giornalista contro il razzismo

 

* estratto dal comunicato stampa

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 




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